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VI DIAMO IL BENVENUTO

I pannelli esposti nel Museo carducciano ripercorrono i principali momenti dell’attività letteraria del poeta, strettamente legata a profumi, suoni e atmosfere della Maremma pisana, teatro delle sue esperienze giovanili. Giosuè Carducci, infatti, trascorse parte della propria infanzia a Castagneto e Bolgheri, e la potenza evocativa di questa realtà contadina è una costante nella sua produzione poetica.

Già docente di Eloquenza presso l’Università di Bologna, torna qui per brevi soggiorni onde visitare i luoghi fonte d’ispirazione per le sue poesie più celebri: Davanti San Guido, Traversando la Maremma toscana, San Martino. Nei suoi ricordi sono rimasti sempre vivi questi paesaggi rurali, scenario di tante ribotte, la più celebre delle quali, tenutasi presso la Torre di Donoratico, è documentata in una rara fotografia del 1885.

Carducci è il poeta della Natura con i suoi colori e le sue luci; tutta la poesia carducciana è permeata da un sentimento schietto, evocativo, che ci riporta alla memoria gesta antiche e valori genuini, legati alla vita semplice, improntata al lavoro dei campi e regolata dal ritmo delle stagioni.

I pannelli del Museo evidenziano un tema peculiare della poetica carducciana: il legame uomo natura, celebrato nelle poesie maremmane, quelle più vive e sentite perché autobiografiche, dove il poeta meglio si esprime e rivela sé stesso, il proprio carattere fiero e rude.

È dunque dal paesaggio della Maremma pisana, idealizzato nel ricordo della propria infanzia, e dai valori del vissuto contadino, che si evince il senso carducciano della vita.

Quel tratto della maremma che va da Cecina a San
Vincenzo, e il cerchio della mia fanciullezza… ivi vissi,
o per meglio dire errai, dal 1838 all’aprile del 1849

Nasce a Val di Castello, piccolo borgo nel comune di Pietrasanta, in Versilia, il 27 luglio 1835. Si trasferisce a Bolgheri tre anni dopo, quando il padre Michele ottiene la licenza di medico condotto nella contea di Donoratico, proprietà della famiglia Della Gherardesca. In questo ambiente Giosuè trascorre un’infanzia serena, improntata allo studio dei classici che egli trova nella librerietta paterna: E io insieme alle opere del Manzoni lessi l’Iliade, l’Eneide, la Gerusalemme, la storia romana del Rollin e la rivoluzione francese del Thiers.

Il fanciullo Giosuè vive il clima politico della prima metà dell’800; suo padre, ex carbonaro e fervente repubblicano, si scontra con la parte più conservatrice del borgo e con i rappresentanti delle autorità locali: i conti Della Gherardesca e il parroco Don Bussotti.

La notte del 21 maggio 1848 furono sparate alcune fucilate in direzione della finestra dello studio del dottor Michele, in seguito alle quali la famiglia si trasferisce a Castagneto Marittimo, in cui risiede per circa un anno. Mentre il padre partecipa attivamente alle vicende politiche castagnetane, sostenendo le ragioni del popolo nei moti rivoluzionari del ’48, il tredicenne Giosuè va recitando presso le botteghe artigiane le poesie del Giusti, poeta satirico toscano, cui si ispira nei suoi primi componimenti poetici.

Quando i conti Della Gherardesca, allontanatisi a seguito dei moti del ’48, rientrano a Castagneto Marittimo, il dottor Michele è costretto a fuggire per aver elargito, in loro assenza, le saccate di terra ai braccianti, e con la famiglia si rifugia a Firenze.

Qui Giosuè completa gli studi classici presso i padri Scolopi di San Giovannino, e incontra Elvira Menicucci, sua futura sposa.

Accede per merito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove nel 1855 si laurea a pieni voti in Filosofia e Filologia dopo solo due anni di studio. Ricopre brevi e sporadici incarichi nei licei della Toscana, fino a quando Terenzio Mamiani, ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, gli offre la cattedra di Eloquenza Italiana presso l’Università di Bologna, dove insegna per quarantaquattro anni.

Durante gli anni dell’insegnamento universitario, partecipa attivamente alla vita politica e intellettuale del tempo; nel 1862, dopo la Battaglia di Aspromonte, abbraccia con fervore gli ideali repubblicani, per poi mitigare, prima del 1890, le proprie idee politiche e avvicinarsi ai valori monarchici, ritenendo che in quel momento storico rappresentassero l’unica possibilità per mantenere l’Italia unita e laica.

Nel 1890 è nominato senatore a vita per meriti letterari.

Nel 1906 è il primo italiano a ricevere il Premio Nobel per la letteratura.

Muore a Bologna il 16 febbraio 1907.

Se io potessi, vorrei ritirarmi in qualche villaggio perduto negli Appennini, o in qualche castello diroccato della Maremma, e non sentir più rumore di vita intorno a me, dimenticare che laggiù in fondo, là lontano, vi sono quelle fogne di pietra ribollenti di un brulicame di insetti chiamate città.

 

San Martino
Rime Nuove, 1861/1887

Carducci, ormai affermato poeta, ritorna a Castagneto ogni qualvolta gli impegni professionali glielo consentono. Egli trova l’ispirazione per questa lirica proprio in seguito a una visita fatta a Castagneto, nel mese di novembre, periodo nel quale i colli appaiono avvolti dalla nebbia, il mare è in burrasca per il forte vento e gli abitanti del paese sono tradizionalmente impegnati nella svinatura.

Il paesaggio descritto dalla poesia richiama alla mente i contorni sfumati di tanti quadri macchiaioli, con le immagini più conosciute della Maremma: il mare, le colline e i campi.

Le tre stesure qui riportate documentano l’evolversi della poesia: nella prima bozza (T1) emerge l’impeto del Carducci, l’urgenza di fissare immediatamente l’ispirazione o l’idea originaria che poi sarà rimaneggiata e sviluppata in quelle seguenti, tanto che il poeta sembra appuntare i primi versi su una nota di lavoro. Gli scritti autografi successivi riportano la data 8 dicembre 1883, con il primo titolo di Autunno; vi sono indicati però due differenti orari che rimandano a momenti diversi della stessa giornata.

Nella seconda bozza semi definitiva (T2) e nella trascrizione in bella copia (T3) compaiono alcune varianti rispetto al testo pubblicato definitivamente con il titolo San Martino.

La poesia è mirabile per l’eleganza stilistica e l’equilibrio compositivo. La prima e la quarta strofa descrivono ambienti esterni ricorrendo all’uso di sostantivi che richiamano alla mente ampi spazi – colli, mare, nubi – ; questi ambienti aperti sono il simbolo della Natura, in particolare di una natura ammantata da un velo di malinconia ottenuto dall’unione di tali sostantivi con aggettivi o verbi capaci di trasmettere al lettore una sensazione di dolore e di tristezza – irti, urla, piovigginando, neri –. La seconda e la terza strofa, che sono in antitesi alla prima grazie all’avversativa “ma”, descrivono invece due ambienti chiusi, una cantina e una cucina, simboli dell’interiorità dell’Uomo, il quale può opporsi alle avversità della Natura solo mediante la propria operosità, rappresentata dal ribollir de’ tini e dallo spiedo che gira su’ ceppi.

METRICA: quattro strofe di tre settenari piani ed uno tronco.

F1 Panoramica di Castagneto Carducci
F2 Casa Carducci a Castagneto
F3 Castagneto Marittimo

T1 Prima bozza della poesia
T2 Bozza semidefinitiva
T3 Stesura definitiva

Là in Maremma ove fiorìo la mia triste primavera, là rivola il pensier mio con i tuoni e la bufera: là nel ciel nero librarmi la mia patria a riguardar, poi co ‘l tuono vo’ sprofondarmi tra quei colli ed in quel mar*

 

Davanti San Guido
Rime Nuove, 1861/1887

Mentre si reca in treno da Roma a Livorno nel 1873, il Carducci volge lo sguardo verso i cipressi del Viale che unisce l’antica via Emilia al paese di Bolgheri e tra i quali era solito giocare durante la sua infanzia. Scrive Davanti San Guido nel Natale 1874 ma sono necessari molti tentativi prima di arrivare alla stesura definitiva, qui esposta, risalente al 18 agosto 1886. Il poeta definisce i cipressi – giganti giovinetti – poiché negli anni della sua adolescenza erano appena stati piantumati. Sul finire del 1700, infatti, a seguito delle bonifiche volute dai conti Della Gherardesca, viene realizzato uno stradone sterrato di circa tre miglia per collegare Bolgheri con la via Emilia.

Dopo il 1830 si aggiungono due filari di pioppi che sono però ben presto divorati dai rustici bufali maremmani. Si rende necessaria, perciò, la loro sostituzione con i cipressi, la cui messa a dimora si concluse nel 1911, a rispettosa distanza dal castello di Bolgheri, conferendo al vecchio stradone l’aspetto di un ombroso viale. Asfaltato fin dal 1954 il Viale dei cipressi è oggi monumento nazionale, posto sotto la tutela del Ministero dei Beni Culturali.  L’improvvisa apparizione dei cipressi consente al poeta di rivivere per un momento gli anni della sua fanciullezza, quando si divertiva a tirare i sassi del Viale e a cercare i nidi dei rusignoli.

L’uomo maturo tiene a specificare in maniera polemica che le sue sassate infantili sono divenute oggi invettive politiche e letterarie contro i suoi avversari; si vanta di non appartenere a quella schiera di romantici manzoniani moderati e conformisti, che riescono a ottenere incarichi ben pagati – che tiri quattro paghe per il lesso –; rivolge un’altra frecciata polemica ai seguaci delle teorie linguistiche del Manzoni, apostrofandoli con l’epiteto di stenterelli poiché fanno uso improprio della favella toscana. Tra i cipressi – alti e schietti – si staglia – alta e solenne – la figura di nonna Lucia; ella soleva raccontargli la novella del “Re Porco” tenendolo sulle ginocchia e chiamandolo affettuosamente bufolotto. Giosuè la esorta a raccontar nuovamente all’uom savio la favola popolare che sconfina in miti antichi; nella lirica riproduce il ritmo poetico del racconto fiabesco e ritrova così il senso dell’antica saggezza. Nelle ultime due quartine il poeta si riscuote dai ricordi; il treno lascia la terra amata, inseguito dai puledri e ignorato da un asino grigio.

La schiera dei polledri simboleggia l’irruenza e la passione tipici dell’età giovanile, che segue il ritmo della vita e del progresso identificato nella vaporiera, mentre l’asin bigio è l’emblema dell’ignavia e della grettezza che offuscano gli animi scettici e disillusi. La poesia è l’espressione del tormento esistenziale del Carducci che continua a ripercorrere con la memoria gli anni giovanili nella speranza di ritrovarvi una vitalità pura e innocente con la consapevolezza della morte imminente, forse unica fonte di vera felicità.

METRICA: quartine di endecasillabi.

F1: Il Viale dei cipressi dopo il 1954
F2: Oratorio di San Guido
F3: Carducci a passeggio
F4: Il Viale sterrato
F5: Il cimitero di nonna Lucia

F6: Abitazione della famiglia Carducci a Bolgheri
F7: Il Castello di Bolgheri all’inizio del Novecento
F8: Ritratto a olio eseguito da Vittorio Corcos
T1, T2, T3, T4, T5, T6: Stesura definitiva della lirica

21 aprile 1885. Ore 3. Ricordo della mattina del 10 aprile che passai per la Maremma; ricordo delle ore 6, sotto Castagneto

 

Traversando la Maremma toscana
Rime Nuove, 1861/1887

Carducci, dopo aver fatto visita alla figlia Beatrice, si reca da Livorno a Roma per una seduta del Consiglio Superiore; il treno passa per la sua Maremma, ed egli osserva i paesi di Bolgheri e Castagneto. La prima stesura del sonetto riporta il titolo Traversando la maremma Pisana.

Il 23 aprile 1885 scrivendo al Chiarini una lunga lettera di cui riportiamo alcuni brani, invia all’amico livornese anche il sonetto appena terminato in bella grafia.

A distanza di pochi giorni scrive di nuovo al Chiarini in vista della pubblicazione: se vuoi stampa il sonetto. L’argomento è questo… passando per la ferrata sotto Castagneto – Traversando la Maremma pisana… bada, sii esigente fin da principio su l’amministrazione; e fatti pagare specialmente te: se cominciano a pigliar confidenza, addio.

La lirica appartiene al nutrito gruppo di poesie dedicate a questi luoghi e perciò dette “maremmane”, la cui ideazione è compresa in un periodo ben definito che va dal 1871 al 1885. Il poeta passa per la Maremma – dolce paese – e si commuove al ricordo dei sogni giovenili che egli aveva lungamente accarezzato durante la sua permanenza a Bolgheri e Castagneto. All’aspetto della campagna che circonda questi paesi, semplice ma solenne, sobrio ma dignitoso, il poeta assimila – portai conforme – il suo carattere orgoglioso – l’abito fiero – e la sua poesia che non accetta compromessi – sdegnoso canto –.

Il paesaggio castagnetano, a lui così familiare – usate forme –, suscita sentimenti contrastanti nell’animo del poeta poiché la sua mente si rasserena quando si abbandona ai dolci ricordi dell’infanzia ma si addolora quando comprende che gli ideali della sua adolescenza – giovenile incanto – si sono ormai trasformati in mere illusioni – sogni –.

La consapevolezza del lento dissolversi delle proprie attese giovanili – quel che amai fu invano – e dall’approssimarsi della morte – dimani cadrò – crea al poeta un turbamento interiore. Solamente il paesaggio di Castagneto, con le sue colline lavorate dall’uomo e la sua pianura verde di vegetazione ridente pur se avvolta in una fitta nebbiolina, riesce a mitigare la sua inquietudine – pace dicono al cuor –.

La bellezza della poesia risiede nella perfetta fusione tra il paesaggio e il sentimento, che passa dal rimpianto (per la gioventù ormai trascorsa) alla delusione (per gli ideali rivelatisi irraggiungibili) e infine al desiderio rasserenante dell’oblio.

METRICA: sonetto.

F1: panoramica di Castagneto
F2: Carducci in età giovanile
F3: Carducci con Chiarini a destra e Gargani a sinistra

T1: Prima stesura del sonetto
T2: Lettera al Chiarini con il sonetto
T3, T4: Lettera al Chiarini del 1885

Cara Elvira,
Sono a Castagneto e ci sto benissimo. Parto ora che sono le 8 della mattina per andare a mangiare alla Torre di Donoratico. Mi sono messo una giacca alla maremmana e un cappello largo di falde e sono molto bello…

Le ribotte, tante volte menzionate dal Carducci nella corrispondenza con la moglie e con Giuseppe Chiarini, sono grandi pranzi a base di specialità maremmane e di vino locale in cui il piatto principale è rappresentato dalla selvaggina tipica di queste colline, i tordi e il cinghiale. Secondo la tradizione, le ribotte vengono consumate all’aperto, in luoghi ameni e cari al poeta, il quale può godere in questo modo non solo dei piaceri gastronomici, ma anche della bellezza dei panorami maremmani. Spesso si tengono sui prati adiacenti la torre di Donoratico o al castello di Segalari. Ovviamente vengono preparate nei periodi in cui il poeta soggiorna a Castagneto; per questo sono concentrate nell’ottavo e nono decennio dell’Ottocento, quando alloggia nell’appartamento della fattoria Espinassi-Moratti. Oltre al poeta, che le organizza e ne sostiene i costi di allestimento, partecipano alle ribotte le principali autorità comunali, le personalità di spicco della popolazione castagnetana e naturalmente gli amici intimi del Carducci che egli provvede a invitare personalmente, come ad esempio Giuseppe Chiarini, suo amico d’infanzia e collega di studi universitari.

Talvolta anche i contadini del borgo prendono parte alla ribotta, spesso senza esplicito invito. Quasi sempre la ribotta procede sino al tramonto, in un susseguirsi festoso di specialità gastronomiche e abbondanti libagioni. Di una di queste e precisamente quella tenutasi al castello di Segalari nell’ottobre del 1885, conosciamo la sequenza delle portate perché a tale ribotta partecipano anche il Chiarini e il Barboni che così la descrive: sopracappellini cotti nel brodo di quaglia, vassoiata di cervello fritto con contorno di prezzemolino croccante, specialità maremmane, tre piramidi di cento tordi l’una, ballotte fumanti e fragranti.

Il poeta è fiero della sua passione gastronomica per i tordi; egli stesso racconta che in ogni suo viaggio dal Piemonte al Cadore, tale selvaggina è sempre presente sulla propria tavola e che, nel confronto tra le varie preparazioni gastronomiche regionali, quella castagnetana supera le altre per la prelibatezza del prodotto. La superiorità gastronomica è dovuta alla peculiare modalità con cui la selvaggina viene catturata e cotta; in Maremma i tordi si catturavano tra gli olivi e si cucinavano immediatamente senza nettarli delle interiora; i frutti ingeriti dagli uccelli conferivano al piatto un gusto particolare: i tordi maremmani, per me, son o superiori agli altri, si nutrono di coccole di ginepro, di mortella, di olive, le carni prendono l’amarognolo gusto insuperabile. Roba da far resuscitare morti…!

Le portate della ribotta sono ovviamente accompagnate da frequenti brindisi, di solito preceduti da brevi discorsi o dalla declamazione degli ultimi versi composti dal poeta. In occasione della famosa ribotta alla Torre di Donoratico del 17 settembre 1885, l’unica di cui esiste una fotografia (F1), il Carducci recita il celebre sonetto dedicato a Castagneto: Traversando la Maremma toscana. La lettura della poesia eseguita dall’autore medesimo infiamma gli animi di tutti i presenti, la cui commozione si scioglie in incessanti applausi rivolti all’illustre anfitrione. La gratitudine dell’auditorio si manifesta allora nella genesi spontanea e immediata di brevi e ingenue rime con le quali motivare l’ennesima alzata di calici all’indirizzo del Vate della Nuova Italia: ecce, acce, occi, ucci, beviamo alla salute del nostro eccellentissimo Signor Giosuè Carducci.

F1: Ribotta alla Torre
F2: Torre di Donoratico
F3: Castello di Segalari

T1, T2: Lettera al Chiarini del 26 maggio 1885
T3, T4: Lettera al Chiarini del 17 ottobre 1894
T5, T6: Lettera al Chiarini del 21 agosto 1885

Salutatemi il popolo svedese,
nobile nei pensieri e negli atti

Così Carducci si rivolge, con voce incerta e malferma a causa della paralisi che lo ha colpito già da alcuni anni, al barone De Bildt, ministro svedese in Italia, che il 10 dicembre 1906 si reca nella dimora bolognese del poeta con l’incarico di consegnargli idealmente il premio Nobel per la letteratura. Il re di Svezia Oscar II, che è un umanista, uno scultore e un poeta, mosso da personale ammirazione nei confronti del Vate della Nuova Italia, vuole che, facendo eccezione alla consuetudine, il protocollo di consegna si svolga contemporaneamente alla cerimonia ufficiale di Stoccolma. Mentre il sovrano, alle ore 17 del 10 dicembre, consegna la medaglia, la pergamena e il premio nelle mani di un ministro italiano nella grande sala dell’Accademia Reale di musica, il barone De Bildt si affaccia nel glorioso studio bolognese del Carducci, il quale riesce a stento a sollevare la mano sinistra per salutarlo. Nonostante le gravi difficoltà di linguaggio, egli riesce a far capire al gradito ospite di averlo riconosciuto. Il barone De Bildt legge allora il telegramma di felicitazioni del re Oscar II, poi inizia un breve discorso, in italiano, per elogiare l’opera poetica dello scrittore: nell’eseguire questa a me ben grata missione, non intendo tessere nessun panegirico… (ben sapendo) che presso di voi i pappagalli lusingatori non sono mai stati i benvenuti… il testamento di Nobel prescrive il premio di letteratura debba essere conferito a quello fra gli scrittori moderni che abbia compiuto l’opra più grande e a più bella in senso idealistico, e tutta l’opra vostra, illustre maestro, è improntata al culto dei più alti ideali che sono sulla terra, ideali della patria, della libertà, della giustizia.

Nell’udire queste ultime parole, il poeta, che ascolta attentamente il discorso del ministro, tamburella con le dita sul bracciolo della poltrona, in segno di approvazione. Fa balenare gli occhi quando il barone si sofferma sulla severità morale, sono di Dio sotto qualunque forma si manifesti. Infine esprime la volontà di baciare la mano all’ospite straniero, il quale però velocemente la ritira, imbarazzato nel vedere il maestro quasi inginocchiato ai suoi piedi. Una forte emozione si impadronisce del fratello Valfredo, degli amici e delle autorità presenti alla cerimonia. Carducci abbandona momentaneamente il suo abito fiero e si lascia baciare e abbracciare, mentre gli ospiti brindano in suo onore.

Giosuè Carducci è stato il primo italiano a ricever il prestigioso riconoscimento: il premio Nobel gli viene assegnato non soltanto per la sua grande erudizione e le sue ricerche critiche, ma anche, e soprattutto, come omaggio all’energia plastica, alla freschezza dello stile, alla forza lirica dei suoi capolavori poetici.Il riconoscimento comprende anche un assegno di 138.536,1 corone svedesi, pari a 191.000 lire italiane dell’epoca, che oggi corrispondono a oltre 600.000 euro. Il denaro viene adoperato dagli eredi per risolvere i problemi economici della famiglia, notevolmente aumentati dopo la morte di Carlo Bevilacqua, marito della primogenita Beatrice. Purtroppo il poeta non avrà modo di utilizzare il denaro, poiché muore a Bologna nella notte tra il 15 e il 16 febbraio 1907, appena due mesi dopo aver ricevuto il premio.

T1: Pergamena del premio Nobel
T2: Pergamena del premio Nobel
T3: Traduzione del premio Nobel