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I LUOGHI DEL CARDUCCI

La vita di Giosuè Craducci è profondamente legata al territorio della maremma livornese, musa del poeta e ospite delle sue memorie formative, quelle dell’infanzia. È qui infatti che tornerà anche in età adulta per godere dei piaceri che questa terra gli aveva sempre regalato: la gente onesta e verace, il buon cibo, l’aria salubre. Possiamo circoscrivere le attività di Carducci all’intero territorio del comune di Castagneto, allora “marittimo” e prima ancora “comunità gherardesca”, all’interno di quelli che erano i possedimenti della famiglia nobiliare che da secoli qui deteneva diritti e poteri. Si tenga inoltre presente che la conformazione di questi territori, così come oggi li conosciamo, deriva dalle opere di bonifica delle paludi malariche, iniziate nel 1779 dal conte Cammillo e riprese intorno al 1828 a seguito di un editto del Granduca di Toscana Leopoldo II.

Da una lettera di Carducci ad Annie Vivanti del 26 ottobre 1894: << Io sono stato a lungo in Maremma. Non più neanche un lupo. Dove quei poveri animali venivano a frotte nella sera ululando, ora fioriscono le viti ingiallite a questi giorni e i ragazzi suonano il mandolino. Le vecchie querce secolari furono abbattute a suon di violino, ora sono più anni, e da per tutto olivi, frumento e orti. Solo nell’alto il verde cupo dei boschi; e qualche vecchio cignale, noiato dal mondo, vi si ritira, come Chateaubriand all’abadia, finché qualche disoccupato non tira a lui una fucilata. Non più bufali, peccato. Qualcosa manca. Ma il vino è in gran copia e buonissimo>>. (Lugioli B., (2022) Rime e ricette in Giosuè Carducci, Il Leone verde, Torino)

Un piccolo elenco dei luoghi frequentati dal Carducci.

  • BOLGHERI: luogo topico non solo per l’abitazione situata nell’attuale Piazza Alberto, ma anche per il celebre Viale dei Cipressi con la sua storia e la sua valenza emotiva. Spesso ricorrenti nelle opere del Carducci sono le scene di vita quotidiana che ruotano intorno al piccolo borgo: il castello abitato dai braccianti e dai contadini che lavoravano nelle terre vicine, le colline e le paludi malariche.
  • CASTAGNETO: anche qui a fare da protagonista c’è la casa d’infanzia ma anche il rapporto con gli abitanti del luogo, con gli amici, le testimonianze di Bombo. Ma non solo questo, c’è anche la partenza del giovane Giosuè e il ritorno da professore universitario.
  • SEGALARI e CASTIGLIONCELLO DI BOLGHERI
  • LA COSTA

FONTI:
Bezzini L., (1993), Giosuè Carducci e la “sua” Maremma, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera.
Bezzini L., (1991), Castagneto epigrafica, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera.
Bezzini L., (2007), Giosuè Carducci. Dimore, evasioni, ribotte, onori, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera.
Lugioli B., (2022) Rime e ricette in Gio Giosuè sue Carducci, Edizioni Il Leone Verde, Torino.

Le poesie e raccolte qui realizzate sono: Idillio Maremmano (iniziata nel 1867 e terminata nel 1872), Il bove (1872), Rimembranze di scuola (pubblicata nel 1873), Una sera di San Pietro, Sogno d’estate, Davanti san Guido, Nostalgia, tutte pubblicate tra il 1871 e il 1874.

CENNI DI STORIA LOCALE.
Un interessante percorso nella storia di Bolgheri lo si può leggere sulle epigrafi che disseminano il territorio, la maggior parte delle quali sono state apposte su commissione dei Gherardesca che volevano, in questo modo, dare memoria alle loro numerose opere architettoniche. Questa fetta di terra <<costituiva la “contea di Maremma” dei Gherardesca. Poi comparvero altri possedimenti: gli Incontri a Castiglioncello, i Ceuli a Segalari (…). A questi eterogenei possessi si aggiunsero molti livelli concessi dai Gherardesca a dipendenti, collaboratori, artigiani (…)>>. (Bezzini L., (2007), Giosuè Carducci. Dimore, evasioni, ribotte, onori, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera).
Questa famiglia nobiliare ha attraversato fortune alterne nel corso dei secoli, ma è sempre stata forte dei suoi numerosi possedimenti e dei rapporti con le altre famiglie del territorio. Un punto di svolta fu nel 1700 quando il Granducato di Toscana passò dalla famiglia Medici a quella dei Lorena. Furono questi a promulgare la legge sui feudi che assoggettava i feudatari al sistema giuridico dello stato e alla quale i Gherardesca si opposero strenuamente.
I rapporti tra conti e la popolazione erano attraversati da cicliche turbolenze soprattutto nel periodo di fine 1700 e inizio 1800. Emblematico il sonetto dei castagnetani allegato al documento inviato al granduca Pietro Leopoldo in persona: Querele e doglianze avanzate a s.a.r. da’ comunisti di castagneto contro i sigg. conti della gherardesca, del 1768.

Giungesse alfin fra le pretese aliene
Campagna Tosca o Granduca possente
questo popolo è tuo, questa è la gente
che sol te vole e a te sol si perviene.

Mira come anelante a te sen viene
qual figlio al padre suo tutto obbediente
da te spera sostegno e veramente
darle soglieno a te sol si conviene.

Già per molti anni affaticato e mesto
lungi dal suo sovran visse in oblio
questo Popolo che qui vedi modesto.

Porgi pertanto orecchio giusto e pio
alle lor preci, e a castagneto resti
una Legge, un Sovrano, un solo Dio.

Nella prima metà del 1800 per esempio, nella comunità di castagneto, erano esplose violente proteste legate agli usi civici, ovvero ai permessi di caccia e pesca nei territori e per i quali la comunità reclamava una più equa redistribuzione.
I fermenti e la circolazione delle idee erano agevolati anche dalle grandi innovazioni tecnologiche dell’epoca: dal 1830 al 1832 era stata aperta la via Pisana (attuale Aurelia) tra San Guido e San Vincenzo che garantiva un flusso nei trasporti.
Nel periodo in cui la famiglia Carducci giunse a Bolgheri, i Castagnetani rivendicavano con forza la concessione delle preselle, ossia dei pezzi di terra per cui si richiedeva l’uso esclusivo dietro pagamento di un affitto modesto (concessione a livello). Il dottor Michele Carducci si schierò con popolazione castagnetana e le rivolte furono tali che nel 1848 il granduca Leopoldo scrisse al Conte della Gherardesca per fare questa concessione.
Ovviamente l’esposizione del Carducci padre ebbe importanti conseguenze sulla famiglia tanto che nel 1849 furono sparate alcune fucilate alla finestra della sua casa. Fu così che la famiglia decise di abbandonare quel piccolo borgo così raccolto dietro al castello da ricordare sempre di più la sudditanza nei confronti dei conti.

LA FAMIGLIA CARDUCCI A CASTAGNETO.
Il Carducci arrivò a Bolgheri nel 1838, all’età di 3 anni, a seguito della sua numerosa famiglia, in cerca di opportunità lavorative. Il padre Michele era un medico con un pessimo carattere e delle pericolose idee sovversive: aveva avuto problemi con la legge per la diffusione di libri rivoluzionari, e finì anche in carcere a Volterra prima di terminare gli studi e iniziare a praticare in Versilia. Insieme a Giosuè, nato a Pietrasanta nel 1835, i coniugi Carducci portarono in maremma anche il piccolo Dante, nato nel 1837. A guidare la carovana c’era la Nonna Lucia Galleni, madre di Michele, e gli zii Natale (che tornerà in Versilia) e Maddalena.
A Bolgheri, Michele avrebbe potuto finalmente praticare la professione di medico chirurgo, cercando di risollevarsi da una situazione economica critica e da una reputazione “macchiata” da un passato rivoluzionario nel quale si registravano anche denunce per illeciti e schiamazzi.
Michele era decisamente vivace nello spirito e nella curiosità. Dice Bezzini: <<La vita dei Carducci a Bolgheri fu ovviamente condizionata dal rigore ideologico del dottor Michele e dalle reazioni che il suo comportamento suscitò in un ambiente chiuso, dominato da lontano dalla figura del conte Guido Alberto. Il Carducci, inserito in tale ambiente senza aperture culturali e sociali, reagì “rumorosamente”, inveendo contro il potere costituito e dominante, il Granduca, il Conte, la Chiesa; ma mentre il conte dimostrò per lui e per le sue idee una continua tolleranza, una avversione sorda contro di lui fu covata e alimentata da parte del pievano don Giuseppe Bussotti, già duramente avversato dal conte stesso>>.

La famiglia si trasferì in uno spazioso appartamento nello stabile in piazza Alberto, detto Fabbrica Nova perché era stato costruito nel 1830 per accomodare la crescente popolazione, costituita per la maggior parte da braccianti e famiglie. A fine ottocento Bolgheri finì per essere sovrappopolata e ciò creò diversi problemi dal punto di vista della salubrità della zona, complice anche la lenta diffusione della malaria. Il lavoro stagionale richiamava braccianti da diverse parti d’Italia costretti a ritmi di lavoro infernali: in inverno per la legna, in estate per il raccolto. Venivano pagati per metà a denaro e per l’altra metà con generi alimentari. La richiesta di braccianti poi nel corso del tempo diminuì a causa del progredire della mezzadria. Anche i bambini contribuivano facendo i “basacchi”, cioè i manovali dei muratori, insieme a chi ancora non aveva abbastanza forze per i lavori gravosi.
La popolazione di Bolgheri era per la maggior parte analfabeta: nel 1841 (censimento Granducale), su 711 abitanti, sapevano leggere e scrivere in 29, e solo leggere in 12.
Nel 1839, a Bolgheri, nasce Valfredo Carducci, fratello minore del poeta. Sappiamo che in età adulta diventò maestro e insegnò dal 1872 in provincia di Trapani. Nel 1879 fu nominato dal ministro De Santis Ispettore reggente a Noto, per poi venire sollevato dall’incarico perché non aveva la patente. In quell’occasione Giosuè scrisse al ministero: “È l’unico fratello che mi rimane: l’ho tirato su da ragazzo, morto il padre; non ho chiesto mai nulla per lui; egli ha ottenuto quel poco che aveva con l’opera sua. E ora lo trattano così… questa volta è la giustizia che difendo, non il mio fratello, il quale conta poco e può ben fare il maestro comunale. Ma questi chiacchierano di giustizia, questi buffoni di progresso sono quello che sono”. Valfredo ottenne di nuovo il posto. Si spostò a l’Aquila e poi a Forlimpopoli, nella scuola intitolata al fratello Giosuè, dove tra i vari studenti c’era anche Benito Mussolini.

USI E COSTUMI DEL LUOGO.
Gli abitanti di Bolgheri avevano una dieta assai povera. Ai braccianti veniva data una parte di compenso in generi alimentari, che solitamente erano costituiti da un po’ di pane, cacio o lardone. Il dolce dell’epoca era pane con fichi secchi. La carne era rara e la sua presenza a tavola dipendeva da diverse contingenze esterne perciò la dieta era per di più vegetariana.
Il vino aveva il suo ruolo nella dieta: era spesso cattivo e se ne faceva uso soprattutto nel giorno di riposo per sublimare le frustrazioni.
Tanto il vino quanto i distillati non erano importanti solo a tavola ma anche per uso medico, si pensi alla grappa ad esempio.

GLI AMICI E LA BIONDA MARIA.
Il piccolo Giosuè passava il tempo coi suoi coetanei e giocavano a farsi la guerra nei boschi e nella macchia scorrazzando dalla Grotta dietro Bolgheri vicino al mulino fino alla Coccolina, sulla strada lungo Castiglioncello. Facevano un gran chiasso, tanto che in una istruzione del 20 aprile 1844 il Conte Guido Alberto scrisse: “I computisti venuti in Maremma per i saldi (…) riferiscono che erano di continuo disturbati per la parte della Grotta da urla e baccani. Bisognerà allontanare i soliti ragazzi; e sarà bene anche avvertire con discrezione il sig. dottore per i figli”.
Tutti i bimbi lavoravano già in età infantile. Così vanno interpretati i versi dell’Idillio Maremmano riferiti alla Bionda Maria, figlia di mugnai e dunque chiamata “La Buratta”, da buratto, ovvero lo straccio usato per separare la farina dalla crusca: “tra l’ondeggiar de’ lunghi solchi uscivi”, cioè impegnata nella mietitura, dato che con tutta probabilità accompagnava gli altri adulti in questo lavoro. A oggi la figura di questa ragazzina è identificata nella bolgherese Maria Rosa Banchini, la cui abitazione è stata collocata nell’attuale Piazza Bionda Maria, 2.
Dell’incontro tra il giovanissimo Giosuè e la Bionda Maria troviamo un interessante scritto nel libro di E. Barboni, Col Carducci in Maremma: <<Ma proprio proprio non mi riconosce? (…) o non si ricorda quando il su’ babbo bonanima lo teneva rinchiuso per punizione in una stanza, e io e un’altra ragazzetta gli si portava un po’ di pane e qualche frutta?” (…) “si ricorda che lei signoria non potendola arrivare perché era troppo in alto, noi gli si porgeva la roba infilata in cima a una canna?” (…) “Poverino, come l’avrei liberato volentieri! E di quando mi scriveva le lettere amorose sigillate col pan biascicato se ne ricorda?” A questo punto tutto il caffè dette in uno scoppio di risa. Il carducci puntò i pugni contro l’orlo dl marmo del tavolino e arrovesciò il capo indietro nel convulso d’una risata omerica, cui fece coro il Chiarini e quanti eravamo del gruppo; nel tempo stesso che la buona donna, confusa e dolente d’aver forse trasceso, badava a dire: scusi, illustrissimo, se gli ho mancato di rispetto!… Che vuole! io non sono alletterata!… mi compatisca!…” “Ma no, ma no! Vi ringrazio anzi d’avermi fatto rivivere quei cari tempi” rispondeva il poeta ridendo sempre in mezzo alle risate generali. (…) E aggiungevo: “non è forse la bionda maria quella? (…)” Egli non mi disse ne sì ne no, ma, sempre ridendo, mi onorò promettendomi una lettera “lunga, molto lunga,” intorno alla sua giovinezza passata in Maremma>>.

BOMBO.
Personaggio famoso per le numerose testimonianze su Giosuè Carducci. Il soprannome gli era dovuto per le sbronze colossali che lo privavano di sensi anche per due giorni interi. Era un muratore di fattoria che tuttavia non si tirava indietro per i più disparati lavori. Risulta aver lavorato a Bolgheri nel 1842-1843 e nel 1846-1847. Dopo che Giosuè si riprese dalla malaria, il babbo Michele lo mise sotto l’ala del Bombo a fare il basacco insieme ai suoi amici. L’esperienza durò pochi giorni: messo alla prova dal lavoro manuale, Giosuè tornò a studiare tanto che Bombo disse al padre Michele: “Sor dottore, dia retta a me, faccia studià ‘r su’ figliolo. Nello studio un pole fallì, se sentisse come dà di poesia; ma a lavorà un è bono, un c’è niente da fa’!”

LA SCUOLA E LA CHIESA.
L’educazione di Giosuè e Dante passò principalmente dalle mani del dottor Michele Carducci e della sua formazione classica. Don Bussotti, sassetano, fu scelto come pievano dal conte Guido Alberto con la nomina nel 1821.
A Bolgheri era stato costruito persino un orfanotrofio, il Bigallo, poco frequentato ma efficace nella formazione dei giovani nei lavori. Il paese necessitava anche di una scuola ma la cattedra non fu occupata in pianta stabile, si susseguirono diversi maestri e cappellani fino al 1839 quando arrivò don Giovanni Bertinelli. Carducci ce ne parla definendolo “nero prete”: tra i due si sviluppò una mutua antipatia, dovuta probabilmente al fatto che i fratelli Carducci erano avanti rispetto agli altri alunni, grazie alla formazione classica ricevuta dal padre.

SAN GUIDO E IL VIALE DEI CIPRESSI.
Il famosissimo stradone era presente fin dai primi del 1800. Fu trasformato in viale dopo la costruizione della via Pisana, con la messa a dimora dei primi cipressi nel 1832. Il primo tratto andava dalla via Emilia al Casone di San Guido. Bezzini in Castagneto epigrafica. Storia di Castagneto, Donoratico, Bolgheri attraverso l’epigrafi, ci dice: <<Il 5 marzo 1845 il conte Guido Alberto scriveva al fattore di Bolgheri, Angiolo Mariani: “Quanto ai 1000 cipressi che vi ho mandato da Firenze e che costano 3 crazie l’uno di prima qualità, li pianterete dalla capanne dei Pastori fino a strada Pisana; se ve ne avanza, li metterete alla Cerreta, ma occorrendo, ve ne potrò mandare anco di qua>>. Solo nel 1911 i lavori della strada terminarono grazie all’intervento del conte Ugolino della Gherardesca.
La chiesina di San Guido, invece, fu costruita molto prima, nel 1703, dal conte Simone Maria della Gherardesca, sia per rendere omaggio al patrono dal quale il fratello maggiore prese il nome, sia per dare ai braccianti estivi l’occasione di fermarsi in preghiera senza salire in paese e rallentando, in questo modo i lavori.

NONNA LUCIA.
A lei è dedicata una statua a Bolgheri scolpita da Flavio Melani.

Località Bambolo. Anche oggi esiste la via del bambolo. Esso era infatti un’antica osteria, proprio tra l’Aurelia e il borgo di Castagneto. Succedeva, nell’arco del 1700 che le osterie fossero gestite per metà dalle comunità e per metà dai conti. A un certo punto però i Gherardesca liquidarono la comunità e decisero di spostare quella che era l’Osteria Vecchia al piano nell’attuale zona dell’Hotel Bambolo: <<Fu scelta la corciata per andare al Casone perché vicino c’era un fosso, il Botro ai Mulini, indispensabile a mille usi, e soprattutto per l’abbeverata dei cavalli. I lavori (…) furono lunghissimi (…). Vi lavoravano infatti grossi maestri dell’arte muraria dell’epoca, come Giovanni della Bella scalpellino, che si esibì in soglie, architravi a cardinaletto, due colonne di pietra a pilastro e, udite udite, una testa di marmo a mascherone che i francesi chiameranno Bambolo>>. (Bezzini L., Castagneto epigrafica. Storia di Castagneto, Donoratico, Bolgheri attraverso l’epigrafi). L’incrocio in cui si trova è molto importante, vi si incontrano le strade per andare al Forte, al Seggio (entrambi sul mare), al Casone (costruito nel 1687 dal conte di Bolgheri, Simone Maria della Gherardesca, presso San Guido), A Castagneto (con la nuova strada creata subito dopo la via Emilia), per Campiglia via Guidalotto, per San Vincenzo. Epigrafe sulla facciata per commemorare i restauri di Guido Alberto della Gherardesca nel 1832.

La torre di Donoratico è ciò che rimane del castello dei Gherardesca, costruito intorno all’ XI secolo, e rimasto a lungo la loro dimora. La posizione sulla vetta del colle, ne faceva un’efficace difesa dalle incursioni dei saraceni, dei Pisani, dei Fiorentini. Pare che la torre sia stata distrutta per mano di Alfonso d’Aragona intorno al 1447, mentre saliva da Napoli a Milano, in concomitanza degli assedi di Campiglia e Piombino. Un’altra versione vuole il castello fosse stato distrutto nel 1433 per mano dei senesi. Oggi rimane solo la torre, che il Poeta nomina tra l’altro in “Avanti avanti”, come scolpito nell’epigrafe poco distante dal sito.

In età adulta, a fama inoltrata, sappiamo bene che Carducci tornò nella sua Maremma, con gli amici e ne approfittò per le famose ribotte. Era molto nostalgico del periodo dell’infanzia e il luogo diventò la sua musa a partire dagli ultimi anni ‘60. La frequentazione in età adulta spazia dal 1874 circa al 1894. Le gite in Maremma erano rese possibili dal fatto che capitava spesso a Livorno, a trovare l’amico Giuseppe Chiarini e la figlia Beatrice, che si era sposata con Carlo Bevilacqua, professore di matematica a Livorno; così come dalla sua attività per Cronaca Bizantina (con sede a Roma). Sembra che una prima visita in Maremma la fece tra il 1871 e 1874, in gran segreto: probabilmente si fermò un paio di giorni mentre viaggiava via treno verso Civitavecchia.

Tornò poi con accoglienza in pompa magna nel 1879: la visita del Poeta, ormai consacrato alla fama, fu seguita da un nugolo di curiosi, che i carabinieri tentavano invano di tenere a distanza. A proposito di questo rientro ci sono varie testimonianze anche in contrasto tra di loro. Carducci arriva ad aprile, di ritorno da Roma, (in quella occasione, o forse anche prima, scrisse Pe’l Chiarone da Civitavecchia leggendo Marlowe). Ad accoglierlo in quella occasione c’era Emilio Bucci, farmacista e appassionato di lettere. Il poeta poi fu accolto nella casa dell’amico Francesco Borsi, padre di Averardo e nonno del più famoso Giosuè Borsi (chiamato così proprio in onore del poeta). Anche i Borsi erano una famiglia di letterati: Cecco (Francesco) aveva una sartoria che costituiva “uno dei centri culturali del paese” (Bezzini L. Carducci e la sua maremma), Averardo lavorò per il Telegrafo a Livorno, e Giosuè fu anch’egli scrittore e giornalista. A casa dei Borsi si tenne un pranzo, riservato agli amici intimi del Poeta; al momento dei brindisi pare che Carducci abbia, come a suo solito, improvvisato una quartina:

A CASTAGNETO

Della natura tua fiera e cortese
L’ombra restò nel memore pensier
Come il tuo vino, o mio dolce paese,
Il mio verso fervea, gentile e auster.

Il 18 marzo 1885 il poeta sentì “la prima scampanellata della morte”: un violento torpore al braccio che però passerà dopo pochi giorni. Iniziò la stesura di Traversando la Maremma Toscana: invia una bozza del sonetto al Chiarini, il 23 aprile 1885. Dopo poco scriveva ad Averardo Borsi: “Conto di fare una peregrinazione maremmana, cominciando da Castiglioncello e terminando a Campiglia e San Vincenzo. Voglio proprio rivedere uno ad uno i luoghi della mia prima età. E condurrò meco un giovane romagnolo, che sarà mio genero. Conto per un banchetto a Donoratico. G. Carducci”.
Il 17 maggio scriveVA alla moglie: “Sono a Castagneto e ci sto benissimo. Parto ora, che sono le otto della mattina, per andare a mangiare sotto la torre di donoratico. (…)” e di questa ribotta abbiamo la foto, quella più famosa, che comprende solo una parte di tutti i “ribottisti”. Durante le ribotte, ognuno portava un po’ di vino, e si mangiava polenta, zuppa, arrosti misti. Per questa occasione il Carducci recitò Traversando la Maremma Toscana, che era stata composta da poco, generando una commozione generale. Ovviamente il vino rendeva tutti molto emotivi e disinibiti.
Il poeta decantava via lettera alla moglie il gusto incredibile dei tordi e anche al suo assistente universitario, scrisse: “Severino, vuoi venire domani, domenica, alle ore 6, a mangiar con me e con quell’ingluvio che si chiama Giulio dei tordi maremmani?” e ancora: “i tordi maremmani, per me, sono superiori agli altri, si nutrono di coccole di ginepro, di mortella, di olive, le carni prendono l’amarognolo, gusto insuperabile, roba da far risuscitare i morti!…”.
Il 25 settembre del 1885 tornò a Bolgheri; in quella occasione incontrò Maria Bianchini e gli amici di infanzia, dopo ben 37 anni: ma il poeta constatò che niente era cambiato in quel di Bolgheri.
Il 5 ottobre Carducci scrisse di nuovo ad Averardo Borsi per comunicargli che di nuovo sarebbe tornato in zona. Arriva il 18 ottobre, ma la ribotta che si doveva fare alla torre di Donoratico necessitava di un altro luogo, date le condizioni di maltempo.
Di questa ribotta pare ci siano testimonianze sicure sul libro di E. Barboni Col Carducci in Maremma, che ci testimonia che per l’occasione di tordi ne erano stati cotti 300.

Descritta dal poeta in Una sera di san Pietro